Fr. Carlo da Motrone


Venerabile


Α:  14 febbraio 1690

Ω: 28 aprile 1763

Cenni biografici

Giusto Grotta nasce il 14 febbraio 1690 a Motrone (Lucca) e cresce in una famiglia veramente cristiana, tanto che anche altri due fratelli divennero sacerdoti. Entra tra i cappuccini ai primi di novembre 1709. Dopo gli studi filosofici e teologici a Bagnoregio e a Roma, è ordinato sacerdote probabilmente nel 1717. Dopo una breve esperienza da superiore nei conventi di Gallese e Farnese, rinuncia per sempre ad ogni carica e per scelta dei superiori si dedica alla predicazioneMuore a Viterbo il 28 aprile 1763. Per la grande venerazione, viene sepolto nella stanzetta a sinistra dell’altare maggiore nella chiesa dei cappuccini a Viterbo, dove rimane fino al dicembre 1766, quando è traslocato nella cappella della Madonna della Vittoria.  Stante la fama di santità, si provvede immediatamente ad istruire, a Roma e a Viterbo, il processo ordinario sulle sue virtù. Negli anni 1792-93 viene celebrato il processo apostolico a Montefiascone.
Ma poi sulla causa cadde il silenzio. Presso l’Archivio Vaticano vi è, ancora sigillato, un processus de miraculo, attribuito all’intercessione del servo di Dio e di cui beneficiò un certo Bernardino Giorgi.

Pensieri del Venerabile Carlo da Motrone

  • Dio ha posto noi missionari nel mondo a questo fine, perché cerchiamo a tutto potere di levar li peccati dal mondo.
  • Con la carità si scioglie tutto, e come la carità di Dio conduce i peccatori al confessore, così la carità del confessore li deve rimettere e stabilire nel seno del Signore.

“Frate vagabondo”

Nei primi giorni di novembre del 1709 entra nel convento viterbese della Palanzana il giovane Giusto Grotta, originario di un paesino della provincia di Lucca, e chiede di essere ammesso tra i cappuccini.
Inizia l’anno di noviziato cambiando il nome di battesimo in quello da religioso di fra Carlo da Motrone.
Divenuto sacerdote, chiede di andare missionario nel Congo, zona dalle mille insidie, tanto da essere tristemente noto come “il cimitero dei missionari cappuccini”.
I superiori, invece, lo destinano alla predicazione popolare in Italia.

Il predicatore

Da quel momento in poi vi si impegnò fino all’ultimo giorno della sua vita.
Appena gli era possibile, si rifugiava tra le mura del convento e si immergeva nella preghiera e nel silenzio.
I suoi luoghi preferiti erano le case di noviziato di Rieti e della Palanzana oppure il conventino di Gallese, lontano dal paese e privo di ogni comodità.
L’intensa attività apostolica, anziché diminuire il bisogno della contemplazione e della solitudine, lo faceva sentire più forte.

Dentro e fuori il convento si serviva dello stretto necessario per vivere, sia nel cibo che nel vestito.
Portava i sandali in ogni stagione, indossava un abito tutto rattoppato e nei viaggi si affidava alla Provvidenza, senza portare niente con sé.
Si pensi poi alle difficoltà degli spostamenti a piedi, sotto il sole o con la neve, spesso per stradine di montagna.

Durante le missioni, non mangiava mai carne o pesce, ma soltanto legumi, verdure e beveva un vinello quasi acqua.
A chi gli faceva osservare che sarebbe stato necessario mangiare un po’ di carne, rispondeva che chi vuol fare il missionario non può pensare alla gola.

Richiesto e rifiutato

Era richiesto continuamente da vescovi e parroci e perciò viveva poco in convento.
Alcuni confratelli gli rimproveravano sia questa assenza da loro, sia il modo di predicare semplice e facilmente comprensibile dalla gente, che invece lo venerava.
Per questo lo chiamavano l’ “apostata onorato”.

Si trovava a suo agio tra la gente semplice.
Ad un confratello che gli proponeva di predicare le missioni a Viterbo e poi a Roma, rispose: “Dove vuole Iddio, andrò; ma io sono il missionario dei poveri”.
E per circa 45 anni le stazioni dei suoi itinerari apostolici furono i paesini dell’alto Lazio e quelli confinanti con l’Abruzzo, l’Umbria, la Toscana e le Marche.

Impressionante era la mole di lavoro del servo di Dio.
Chi ha avuto tra le mani l’elenco delle sue predicazioni, le fa ammontare al numero di 416 missioni, oltre a 42 quaresimali e 31 preparazioni all’avvento, per non parlare degli innumerevoli tridui e corsi di esercizi spirituali dati a suore e monache, sacerdoti e popolo.

Oltre al numero, è da tener presente anche il ritmo estenuante che il cappuccino imprimeva alle missioni, per cui era in attività dalla mattina alla sera.

Le chiacchiere, però, non si fermarono tra le mura del convento.
Così, proprio mentre stava per iniziare la missione a Narni, il vescovo comandò al frate vagabondo di andarsene.
Questo è buon segno, qui si farà del gran bene”, commentò a caldo il cappuccino.
E non si sbagliava; dopo il chiarimento con il vescovo, la missione si tenne e riuscì molto bene.

I denigratori ebbero miglior fortuna in un tentativo successivo e l’uomo di Dio a 72 anni venne privato temporaneamente della facoltà di predicare e di confessare.
Fu una prova durissima, che accettò scherzandoci sopra: “Son tutte cose che succedono prima di morire”.

Tra mariani, operai e maremmani

Ricordando i tre anni nei quali fu cappellano sulle galee pontificie (1724-1726), diceva che queste erano un inferno galleggiante.
Vi aveva incontrato schiavi e galeotti dai costumi bestiali, aguzzini senza pietà, ufficiali boriosi e privi di ogni senso di giustizia.
Ma se da una parte aveva conosciuto fino a che punto può giungere la miseria umana, dall’altro la sua presenza e la sua parola portavano un po’ di speranza e di bene tra quelle persone disperate e brutali.
Tornerà due volte a fare le missioni alla ciurma e ai soldati.
Incontrò e parlò a lungo anche con i forzati delle miniere di Allumiere e riuscì a farsi consegnare le armi che abusivamente tenevano, facendole sotterrare nel bosco dei cappuccini di Tolfa.

Uno dei luoghi più frequentati dal servo di Dio fu la Maremma, che nel Settecento era quasi completamente disabitata, a motivo della malaria.

I latifondisti, che avevano i loro possedimenti in quelle zone malsane, non tenevano in alcun conto i precedenti penali di chi veniva a cercar lavoro.
A Montalto, che era la cittadina più malfamata, padre Carlo girava per le strade, entrava nelle bettole e con bel garbo convinceva quei galantuomini ad andare in chiesa.
Alla fine, riuscì perfino a togliere l’abuso delle “capanne”, dove pernottavano promiscuamente uomini e donne, convincendoli a usare capanne distinte.
Ben presto, i frutti della predicazione si resero evidenti: la gente assiepava i confessionali e non si sentiva più parlare di delitti.
A distanza di quasi un ventennio, a Piombino si invocava il ritorno di un nuovo padre Carlo, perché vizi ed omicidi erano tornati a imperversare.

Una persona indimenticabile

Le penitenze, le fatiche e le difficoltà d’ogni genere non intaccarono le sue riserve di bontà e amabilità.
Era nota la cordialità con cui accoglieva chiunque si recasse a fargli visita durante le missioni; anzi voleva che tutti rimanessero a mensa con lui.
Diceva: “Più saremo, altrettanto glorificheremo Iddio e la sua divina provvidenza”.
E in quei momenti sereni mitigava perfino i rigori del suo digiuno.

Non sorprende allora che chi lo aveva incontrato una volta, sentiva il bisogno di tornare a lui, sia per motivazioni spirituali, sia perché si stava bene insieme.
Da buon toscano, ogni tanto se ne usciva con qualche battuta spiritosa.
Per esempio: una volta si stava recando a Nepi per la missione e fu sorpreso dalla pioggia; rivolto al domestico di casa Silvestrelli disse: “Vedi, Paolo, impara a viaggiare coi peccatori!”.
Ma sorprendentemente quei peccatori, dopo ore di cammino sotto la pioggia, si ritrovarono con gli abiti completamente asciutti!

Viaggiando da Montefiascone a Viterbo, cadde l’asino che trasportava il quadro della Madonna.
Tra l’allegria dei presenti, gli fece una scenata, dicendogli che il collega che aveva condotto la Madonna in Egitto era stato più attento e rispettoso di lui.

Quando, già intorno al 1740, la gente cominciava a tagliuzzargli il mantello per farne reliquie, secondo la consuetudine del tempo, egli protestava: “E che volete far le braghe al gallo?”.

Visita ai malati e alle famiglie

Con lui ordinariamente viaggiavano due o tre missionari e un inserviente, che su bestie da soma trasportava le cose occorrenti per la missione: un grande crocifisso, l’immagine della Madonna della Vittoria, una piccola scorta di candele, libretti devozionali e due stendardini per le processioni.

Arrivati in un posto, subito i missionari andavano nelle case a visitare i malati e a sentire i bisogni della gente.
Lasciavano la casa con l’invito ai familiari di partecipare alla Messa, al catechismo la mattina e alla predica la sera.

Allora padre Carlo saliva scalzo sul pulpito e teneva la predica istruendo nella fede ed esortando a vivere da cristiani.
Così per tutto il corso della missione, che solitamente durava quindici giorni.

Ben sapendo che è sciocco seminare senza raccogliere, il cappuccino dava grande rilievo alla confessione sacramentale, per la quale gli uomini avevano la precedenza sulle donne.
Ordinariamente riceveva gli uomini nella sua cella, per farli sentire più a loro agio, anche a tarda sera.

Intransigente e tonante dal pulpito, nel confessionale era tutto bontà e misericordia.
Preferiva “essere ripreso da Dio per aver usato misericordia, anziché troppo rigore”.

Al termine delle missioni, giocando d’astuzia, fuggiva all’insaputa di tutti, per evitare le lodi, che semplicemente non sopportava: preferiva “essere stimato un bevitore piuttosto che un santo”.

Eppure molti conoscevano le estasi, le profezie e i miracoli con i quali il Signore poneva il sigillo alla sua vita santa e la sua capacità di conoscere i segreti della coscienza.

Gli venivano attribuite guarigioni prodigiose, che operava grazie alla sua grande fiducia in Dio e per venire incontro alle necessità della gente.
Era solito dire che il missionario dovrebbe “avere un sacco di pazienza [per ascoltare tutti], un sacco di miracoli [per sanare gli infermi] ed un sacco di zecchini [per soccorrere i poveri]”.

Per quanto anziano, negli ultimi mesi di vita tenne due missioni, a San Martino al Cimino e a Chia.
Predicò a Piansano in preparazione all’avvento e poi tenne il quaresimale a Blera.

Ad una vecchia inferma che lo supplicava di guarirla, aggiungendo che poi si sarebbe ritirata in monastero, rispose profeticamente: “Sì, sì, fa pochi giorni entreremo tutti e due nel monastero dell’eternità, ma voi vi entrerete un giorno prima di me”.

Il 28 aprile 1763 usci dal convento di San Paolo a Viterbo alle 4.45 per continuare gli esercizi spirituali alle trovatelle dell’istituto “Santa Francesca Romana”.

Anche quella mattina si era confessato, come faceva ogni giorno prima di celebrare.
Però, mentre iniziava la predica, ebbe un colpo apoplettico ed entrò nel “monastero dell’eternità”.