“Atalaya” vuol dire “sentinella”, e il nome indica la funzione politica di questo piccolo municipio posto ai confini con il Perù, unica cittadina brasiliana sulla destra del Javary.
I primi abitanti della zona furono gli indios Maias, Marubas, Mangeronas e Tikunas.
Oggi rimangono solo alcuni gruppi di questi due ultimi, sparsi in villaggi isolati.
Altri gruppi, comunque, e probabilmente di tribù non ancora conosciute, vivono nei 75000 Kmq del municipio, percorso da sette grossi fiumi che tagliano le foreste con geometrie ribelli e grossolane.
Tutti parlano della loro presenza su, alle sorgenti dei corsi d’acqua, numerosi e tutti navigabili, come il Curuça, l’Itacoaì, l’Ituì, il Rio Quixito, il Rio Bianco e il Rio das Pedras.
Ma nessuno sinora ha osato avvicinarli, né loro han voglia di uscire da una solitudine che significa libertà.

Il primo “povoado” (abitato) nella zona si formò sulle due rive dell’Itacoaì.
Nel 1890 vi capitò il maranhense Alfredo Raimundo de Oliveira Baston, che lo chiamò “Remates de Males” , mucchio di mali.
Una scelta indovinata, perché il villaggio, allagato per la maggiorparte dell’anno tanto che si doveva andare da una capanna all’altra in canoa, era infestato dalla malaria.
Nel 1924 passando di lì il dott. José Linhares, impiegato del Ministero della Sanità, definì gli abitanti “cadaveri ambulanti”.

Uno dei primi missionari che vi lavorò fu Padre Domenico da Gualdo Tadino che si spinse fino agli alti influenti per visitare, durante la discesa, i villaggi del Javary e del Curuça.
Lo sostituirono più tardi Padre Alessandro da Piacenza e Padre Antonio da Frascarolo, il quale scese tutto il Curuça, trovando le capanne così lontane da loro che poteva fermarsi e mangiare solo una volta al giorno (era lui stesso a spingere la canoa!) e soltanto carne di guariba (una scimmia di circa 60 cm di lunghezza).
Padre Alessandro passò tutto il 1912 sui fiumi.
Poi dovette ritirarsi a Manaus perché colpito da una terribile febbre intermittente, detta sazâo, dalla quale é difficile guarire completamente.

I missionari trovarono a Remates de Males due chiesine vecchie e cadenti.
Il municipio attuale cominciò nel 1940 per l’intraprendenza del cappuccino Padre Silvestro Galmacci da Ponte Pattoli (PG), il quale, dopo che il fiume portò via alcune case del villaggio, demolì la chiesa e la ricostruì sul colle vicino, aiutato da un certo José de Menenes Accyoli Veiga, un piccolo e industrioso commerciante che scelse anche il nome della nuova residenza, divenuta municipio nel 1955.
Il primo sindaco, comunque, spaventato dalla lontananza, non ci volle andare.
Padre Silvestro da Ponte Pattoli può essere ritenuto il cofondatore di Atalaya do Norte.

Nel 1971 fu eretta la parrocchia, dopo che, per vari anni, un sacerdote vi veniva periodicamente da Benjamin Constant.

La parrocchia fu affidata a P. Miguel Arcanjo Gama da Manaus.

Il 20 gennaio 1979 é stata inaugurata la nuova chiesa, dedicata a San Sebastiano.
I due sacerdoti che vi hanno lavorato, Padre Filippo Dominici e Padre Michele, hanno dovuto affrontare grossi problemi pastorali, primo fra tutti quello di creare una comunità parrocchiale.
La gente, che discende da immigrati nordestini venuti quì durante il boom della gomma, era sempre vissuta in capanne isolate lungo i fiumi e non era ancora portata alla vita di gruppo.
Abituata a vedere il sacerdote una volta o due all’anno, non aveva il senso della domenica, dell’associazione cattolica e della stessa processione.
Altro grosso problema era quello dell’unità familiare.
I cablocos non sono Tikunas, fra i quali la monogamia è inviolabile.
Per questi è inviolabile la poligamia.

Economicamente Atalaia si regge, perché più o meno tutti vivono del municipio, che ha molti impiegati.
Gli altri vivono con un residuo commercio di borracha o vivacchiano in una povertà endemica, senza far nulla per sottrarsi ad una condizione che pensano sia voluta da un destino amico, perché è nelle loro mani da sempre.
Il cabloco non ha molte esigenze per vivere: gli basta un po’ di pesce, fresco o secco, un pugno di farina di manioca ridotto a granelli duri, una scodella di riso, qualche frutto e una capanna di acafù.
La maggioranza dei caboclos è denutrita, il che comunque non impedisce di trovare uomini muscolosi, donne e bambini di gradevole aspetto, anche a causa di una naturale selezione che si compie fin dai primi giorni di vita.
I più deboli muoiono presto, i più robusti sono vecchi a 30 anni.