I cappuccini umbri hanno creato in Amazzonia una tradizione di gloria. Non soltanto quelli di ieri, ma anche quelli di oggi, impegnati in una Prelazia “sempre verde” perché estesa in un territorio ondulato di boschi perennemente frondosi e “sempre al verde” perché popolata da gente immersa in una povertà endemica.

Da più di 100 anni essi lavorano nell’Alta Amazzonia, la regione che deve il suo nome al Rio delle Amazzoni, un corso d’acqua a cui la parola “fiume” va molto stretta e che perciò gli indigeni chiamano più frequentemente “Rio Mar”. L’Amazzonia è l’acqua: in principio era l’acqua. Prima della capanna, dei villaggi, degli indios, era l’acqua turbinosa e grigia che se ne va tra spaventosi silenzi eterni.
Dove non c’è l’acqua c’è la foresta compatta e quasi senza fessure. Le uniche fenditure in questo muro di verde sono i sentieri dei piantatori di manioca, numerosi, e dei raccoglitori di gomma, oggi molto ridotti rispetto a quasi un secolo fa.
Fra essi arrivarono nel 1909 quattro cappuccini umbri giovanissimi. Il territorio loro affidato aveva i confini degli orizzonti: 140000 kmq (17 volte l’Umbria da cui provenivano) e circa 20000 abitanti, dispersi negli anfratti più nascosti, e più poveri degli stessi indios che vi erano nati e che si erano rifugiati vicino alle sorgenti dei fiumi. Ad essi hanno fatto seguito schiere di missionari che, anche a costo della vita, non hanno risparmiato fatiche per la promozione umana e sociale di quelle genti.

“Se si desse ascolto alle gravi difficoltà che a ogni passo si incontrano, non si farebbe mai cosa alcuna.” Padre Evangelista Galea da Cefalonia

Stazioni missionarie

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La nostra missione, oggi Vice-provincia dell’Amazonas, è situata nello Stato omonimo, creato per Decreto Imperiale il 5 settembre 1850 ed elevato a condizione di diocesi da Leone XIII con il Documento Ad Universas Orbis Ecclesias, il 27 aprile 1892, smembrandola dalla diocesi del Pará.
La più probabile origine del nome Amazonas è ama, valle o bacino, e azu, grande: la grande valle idrografica formata dal Rio Mare che nasce insieme al lago Lauricocha in Perù, con il nome di Rio Marañon.

Ingrossato da diversi affluenti, riceve il nome di Solimões per poi cambiarlo in Rio dell’Amazzoni quando le sue acque argillose si mischiano con quelle del Rio Negro a Manaus, proseguendo poi fino all’Oceano Atlantico.
L’Amazzoni è il fiume più lungo del mondo – se misurato col rio Solimões – e di maggior portata d’acqua, con 6.571 km, superando il celebre Nilo dell’Egitto.

Alla confluenza con il Rio Negro ha 12 km di larghezza e più di 200 km nel suo sfociare nell’Atlantico, dove con forza naturale, le acque avanzano per più di 300 km dentro il mare! Solimões, probabilmente, significa fiume dei veleni, ricordando le frecce avvelenate della tribù dei Solimões.

Inizialmente, giunti in questa terra, i Cappuccini umbri si insediano in quattro principali residenze: Manaus, da sempre rimasta punto di appoggio, Tonantins, São Paulo de Olivença e Remate de Males.

Da queste località, poi, la loro azione si dirama, portandoli lentamente ad erigere nuove residenze stabili.

Per comprendere meglio il metodo missionario adottato dai primi frati in quelle terre di missione è molto utile la seguente descrizione:

…il processo di territorializzazione pastorale può essere inteso come un processo di appropriazione dello spazio che implica relazione tra luoghi differenziati in cui si muovono i missionari, disegnando tracce ora più dense – nelle stazioni missionarie principali, costruite nei villaggi – ora più leggere – nelle stazioni missionarie secondarie, stabilite nei seringais o nelle vicinanze – e definendo traiettorie in questi dislocamenti.
Le pratiche dei cappuccini sono determinate da oggetti (chiese, nelle stazioni principali; cappelle, nelle stazioni secondarie) che fissano, esibiscono, radicano il territorio di missione come un territorio continuo, e attraverso operazioni (apostolato di civilizzazione e progresso nei villaggi, desobrigas nei serningais e nelle foreste), che includono e rendono questo territorio pastorale come un territorio discontinuo e mobile… .

Fra Paolo Maria Braghini, missionario

Elenco stazioni

Frati Missionari

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Questi profili di frati ripropongono, ogni a suo modo e nel suo tempo, la figura di un missionario come Francesco, indubbiamente l’uomo che capì e visse nel suo suono lirico e nel suo senso umano e religioso la parola di Cristo: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura.”

Da Assisi partirono i primi missionari francescani per l’Europa e per l’Africa, e da Assisi continueranno a partire i missionari per l’Amazzonia, con lo stesso entusiasmo di più di 100 anni fa, lieti come gli uccelli di cui si parla nel Vangelo e ai quali Francesco voleva che i suoi frati somigliassero.
Semplicismo? No; piuttosto semplificazione e saggezza.
Poesia? No; piuttosto fede.
Fede che non esclude la poesia, ma la alimenta e se ne alimenta per la storia della chiesa e la storia del Regno di Dio.

Quando, a ottobre del 2011, varcammo la porta del convento dei Cappuccini a Spoleto per iniziare il Postulato, cioè il primo tempo vissuto dai candidati alla vita religiosa per verificare meglio la loro vocazione, ci si presentò, tra gli altri membri della comunità, un insolito frate, alto, con i capelli ed il pizzetto “sale e pepe”, dal volto apparentemente scuro e dallo sguardo un po’ arcigno, forse a causa di un occhio appannato, a causa di un intervento chirurgico subito negli anni ’60.

Sembrava un pesce fuor d’acqua rispetto alla vita quotidiana fatta di regole precise, che ci aiutavano ad interiorizzare la vita cappuccina.

Eppure nel convento di Spoleto ci stava da ben 20 anni e ne era stato più volte superiore!

P. Arsenio Sampalmieri da Rivodutri (RI) (1936-2015), questo era il suo nome da religioso, ci appariva, dunque, come un frate un po’fuori le righe, ma, benché non lo sapessimo, era un vero e proprio benefattore dell’umanità ed un martire, che aveva riportato a casa miracolosamente la pelle.

Egli, infatti, dal 1961 era partito per la missione, giungendo nell’Amazzonia.

Dopo alcuni anni di servizio missionario gli fu affidato un incarico che avrebbe cambiato la sua vita: l’apostolato tra gli Indios Tikunas, uno dei più numerosi gruppi etnici della foresta amazzonica.

Tutto questo, però, lo scoprimmo dal racconto di altri. P. Arsenio, a differenza di molti confratelli missionari, non amava parlare degli anni trascorsi in missione.

Eppure per gli Indios aveva dato la vita!

Si era fatto uno di loro, vivendo in una capanna come quelle costruite dai Tikunas, imparandone la lingua, adottandone usi e costumi.

E annunciando loro il Vangelo.

I Tikunas volevano bene a P. Arsenio, lo consideravano uno di loro ed un mediatore tra il mondo occidentale e la loro cultura, che egli rispettava e, all’occorrenza, difendeva.

Era diventato anch’egli così indio da poter realizzare una grammatica della lingua tikuna, la prima sicuramente, anche se rimasta manoscritta.

E per gli Indios avrebbe dato la vita, supremo atto di amore a Dio per questi suoi figli, poiché subì un attentato da parte di alcuni malviventi che non vedevano di buon occhio il suo servizio missionario.

E fu così che p. Arsenio tornò per sempre in Italia.

A noi, degli anni di missione, con molta umiltà e con un fare un po’ dissacratorio per aiutarci a crescere (anche se proprio bambini non eravamo anagraficamente) ci diceva solo che metteva il saio per la festa di San Francesco e che, quando dovette ritornare in Italia, si fece per benino la chierica, ma, atterrato che fu si accorse che, ormai, non era più in uso tra i frati.

Con il passare dei mesi, piano piano, P. Arsenio si affezionava ai Postulanti e, nell’orto, la cui passione condivideva con il nostro Maestro, ci insegnava tante cose pratiche, soprattutto per noi cittadini, ma, soprattutto, ci insegnava, a suo modo, a vivere la vita cappuccina.

Per ironizzare e prendersi in giro raccontava alla signorina Ottavia, che aiutava in convento e lo rimproverava di non lavarsi mai i piedi prima di andare a letto, che San Giuseppe da Leonessa si puliva i pedi con la scopa solo quando, ormai malato, gli portavano la S. Comunione nella sua celletta.

E se così aveva fatto un santo, anche il suo modo di fare era giustificato.

Con il passare del tempo P. Arsenio si fece anche nostro complice, facendoci uscire per accompagnarlo a dire la Messa dalle Suore della Sacra Famiglia di Spoleto, a casa madre.

Di solito si andava in due con lui.

Dopo la Messa ci si fermava in sacrestia a prendere il tè ed i biscotti che Sr. Elsa ci aveva preparato con tanta premura.

E così p. Arsenio faceva contenti sia noi che lei.

Una volta, era la quarta Domenica di Pasqua, la domenica del Buon Pastore, nell’omelia parlò alle suore della Madonna, che noi Cappuccini veneriamo con il titolo di Divina Pastora o Madre del Buon Pastore e che è la patrona delle nostre Missioni.

A casa madre c’erano tante suore anziane, spesso ammalate.

A queste sorelle, che avevano servito per una vita i poveri, P. Arsenio disse che anche loro non solo erano state “divine pastore”, ma che lo erano ancora oggi.

E tutte furono tanto contente di questo paragone, che ne elogiava il servizio e che le faceva sentire ancora utili.

Quando in convento raccontammo il successo dell’omelia P. Arsenio se la rideva sotto i baffi.

Lasciato il convento di Spoleto, p. Arsenio, con discrezione, ci ha seguito a distanza, mentre continuavamo il cammino formativo, dimostrandoci che ci voleva veramente bene.

E così ci aveva insegnato anche lui ad essere bravi, speriamo, frati.

“Sovrabbondante”.

È questo l’aggettivo che meglio qualifica p. Benigno Falchi da Grutti (1936-2011), un frate sovrabbondante per stazza fisica, per l’allegria contagiosa che era capace di suscitare, per l’impegno profuso nelle missioni, per la fede granitica.

Lo conoscemmo quando, di ritorno per un po’ di riposo dal Brasile, veniva in visita al convento di Spoleto, sede del Postulato, dove, oltre ad offrire la propria testimonianza a coloro che muovevano i primi passi tra i Cappuccini, incontrava un suo vecchio amico di missione: il p. Arsenio del quale abbiamo parlato qualche numero fa.
P. Benigno non passava certo inosservato.

Eccessivamente sovrappeso, senza barba, come si usa oggi in alcune parti del mondo cappuccino, senza abito, sempre pronto a scherzare intercalando qualche battuta colorita e raccontando qualche aneddoto dissacrante.

Ricordo, particolarmente, che ci raccontava di aver usato le cosiddette “fonti cappuccine”, cinque ponderosi volumi che contengono preziosi documenti della storia dei Cappuccini del 1500-1600, come zeppe per rialzare il letto.

Ma dietro questo modo di esprimersi decisamente anticonformista si celava una grande fede.

Sempre in occasione delle sue visite ci esprimeva il desiderio di poter aprire un monastero di Clarisse Cappuccine nelle regioni del Brasile da lui servite in cinquant’anni di missione.

Egli riteneva che questa presenza fosse fondamentale per quei popoli che a noi sembravano così lontani e poi per presentare la famiglia francescana in tutta la sua completezza.
Il mezzo secolo trascorso da p. Benigno in Brasile, nell’Amazzonia, è stato un continuo donarsi alla gente di laggiù con tutto il trasporto e la passione di cui era capace.

Del resto le antiche Costituzioni dei Cappuccini (1536) dicono che si deve predicare e, aggiungiamo noi, vivere ogni apostolato, per “sovrabbondanza di amore”.

E così scuole di ogni tipo, perché la formazione era il suo pallino fisso e lo strumento privilegiato per permettere al popolo a cui la Provvidenza lo aveva inviato di poter divenire protagonista della propria storia, chiese, conventi, un ripetitore radio, attività lavorative per rendere autosufficienti tante persone, tra cui una fabbrica di mattoni della quale andava particolarmente fiero.

P. Benigno non solo ideava, progettava e dirigeva le varie opere, ma era sempre il primo a sporcarsi le mani, a fare il manovale, a metterci la faccia.

Tra gli altri aspetti del suo servizio missionario occorre ricordare la difesa degli indios privati delle loro terre da persone avide e potenti, che non esitavano, attraverso “comandi” organizzati appositamente, a far strage delle tribù pressoché inermi.

Fu una scelta coraggiosa, perché il suo essere missionario e bianco non lo preservava da eventuali vendette di quanti si vedevano intralciati da un frate, la cui voce suonava tuonante ed era ascoltata da tutti.
E poi i frati.

Sì, i suoi confratelli. Quelli che aveva lasciato in Italia e di cui serbava sempre un grato ricordo e quelli brasiliani.

Egli fu anche superiore della Vice provincia cappuccina, cioè dell’insieme dei frati che vivono su un determinato territorio.

Si preoccupò molto della loro formazione umana e spirituale, perché sapessero vivere ed annunciare il Vangelo con passione.
Potremmo sintetizzare la sua vita con l’espressione di san Paolo: “Farsi tutto a tutti”.

Egli conosceva personalmente quasi tutti gli abitanti dei centri urbani dove era stato e dei numerosissimi villaggi lungo il fiumi, che aveva visitato durante gli anni.

Per tutti aveva una parola, si interessava dei problemi quotidiani e, come capita solo a pochi confratelli, aveva il dono di poter rimproverare i suoi interlocutori, a volte anche in maniera colorita, senza che questi si offendessero, in quanto capivano che anche i rimbotti erano espressione d’amore per loro.
Mi sembra bello concludere con un episodio capitatogli laggiù in Amazzonia e che ben sintetizza la sua figura ed il suo servizio al Vangelo.

Lo traggo dal bel libro che, su di lui, ha scritto il nipote.

“Una volta, mentre tornava da una comunità uno di loro (un caricatore del porto; si tratta di una delle classi più povere di Benjamin Constant nda) gli si è accostato e gli ha detto: «Benigno, ti vogliamo bene, perché sei uno sbagliato come noi».

È stato il giorno più bello della sua vita, non si sentiva più il frate italiano, lo straniero… Era semplicemente uno di loro”