Fr. Giorgio da Augusta


Venerabile


Α:  25 aprile 1697

Ω: 7 ottobre 1762

Cenni biografici

Nasce a Pfronten, in provincia di Augusta (Baviera), probabilmente il 25 aprile 1697, primogenito di 4 figli.
Entra in noviziato il 4 novembre 1724, emettendo i voti l’anno seguente. Per alcuni anni è cuoco nei conventi di Campagnano, Ronciglione e Bassano di Sutri (1726-1731). Nel 1732 è nel convento della Immacolata Concezione in Roma con l’ufficio di “lanaiolo” a cardare, filare, tessere la lana per i vestiti dei frati. Dopo una vita di lavori umili (infermiere, questuante, sacrestano) e di generosa dedizione ai fratelli, muore a Frascati il 7 ottobre 1762, dove viene sepolto. Nel 1922 i suoi resti mortali sono traslati nella chiesa dei Cappuccini di Kempten (Allgaü) in Baviera. Due anni dopo la morte viene istruito il processo informativo ordinario (1764-66). Successivamente vengono celebrati i processi apostolici sulle virtù (1781-1797), la cui validità è riconosciuta con decreto del 30 settembre 1852.

Pensieri del Venerabile Giorgio da Augusta

  • Non vi faccia specie, se avete delle tentazioni, siamo tutti di carne, ancora io le ho sofferte, ma mi è riuscito con l’aiuto di Dio non peccare; basta il fuggire le occasioni e ricorrere prontamente al divino aiuto invocando il santissimo nome di Gesù, di Marta e dell’Angelo custode.
  • Abbiate fede, che se crederete che Iddio è morto per la salute dell’anima vostra, vi salverete.
    Lasciate il peccato e vivete bene, e vi salverete.

Una santità ordinaria

Fornaio, cuoco, “lanaiolo”, infermiere, sacrestano, questuante: tutto questo è stato fra’ Giorgio.
Benedetta semplicità e adattabilità dello spirito francescano, che rende disponibili a ricoprire per obbedienza diversi uffici, magari senza avere la preparazione specifica per nessuno di essi!

Andrea Erhardt – questo il suo nome di battesimo – di professione fornaio, proveniva da Augusta.
Trasferitosi a Roma nel 1718, vi trascorse una vita esemplare, insieme al fratello Gioacchino, che entrerà come fratello coadiutore nella Compagnia di Gesù.

Nell’aprile del 1724 Andrea bussò alla porta del convento-ritiro di San Bonaventura al Palatino chiedendo di essere accolto tra i Frati Minori.
Il padre guardiano gli rispose che non era possibile, perché non era abbastanza robusto di costituzione fisica.

Nell’autunno dello stesso anno, “camminando per le quattro Fontane”, ebbe l’idea di andare al vicino convento dei cappuccini di piazza Barberini.
Il Ministro provinciale gli disse subito: “Siete già accettato, venite domani che vi darò l’ “obbedienza” “.
Fu una sorpresa, perché, di solito, i cappuccini facevano aspettare molto tempo prima di accogliere qualche richiedente.
Andrea vesti il saio di novizio, nel convento della Palanzana e si fece chiamare Giorgio, in memoria di suo padre.
Un giorno, mentre trasportava un barile di vino nella cantina scavata nel tufo, scivolò sulle scale umide e il barile gli cadde addosso, procurandogli una lacerazione muscolare che lo tormentò per tutta la vita.
Terminato l’anno di noviziato, fu destinato alle faccende di casa e alla questua.

“Io sono peggiore di Giuda”

Durante il suo lavoro era abitualmente così assorto in Dio che bisognava scuoterlo per parlargli, come testimonia il suo compagno di questua.
Una volta dovette strattonarlo bruscamente per dirgli qualche cosa.
Fra Giorgio esclamò: “Cosa è, cosa è, Gesù e Maria, cosa mi comandate, fratello?

Comunicava la sensazione che fosse “un angelo in carne”.
L‘Eucaristia occupava il primo posto nella sua vita.
Trascorreva ore e ore dinanzi all’altare in ginocchio, con le braccia rette e incrociate al petto, ricurvo, di modo che la bocca veniva a stare molto vicina alle ginocchia, e non aveva nessun appoggio…
Di quando in quando diceva:
Signore, abbiate misericordia; Signore, non guardate ai miei peccati.
Io sono peggiore di Giuda
Signore, scribi e farisei vi maltrattarono gravemente ma non sapevano quel che facevano, e non avevano quei lumi, che voi avete dato a me.”

Fra’ Giacomo da Faenza racconta che dopo la preghiera della sera e prima di andare a riposare, fra’ Giorgio si disciplinava a sangue.
Si alzava a mezzanotte per la preghiera comunitaria e rimaneva in chiesa fino al mattino, quando i sacerdoti cominciavano a celebrare la messa.
Dopo averne sentite più di una, andava al suo lavoro.
Servire all’altare fu la sua gioia più grande.
Impegnava tutto il tempo che gli rimaneva libero dai suoi impegni nel servire tutte le messe che poteva.
Una volta fuori casa per la questua, entrava in qualche chiesa e vi sostava a lungo, talvolta fino a mezzogiorno.
Anche durante alcuni giorni liberi dalla questua, entrava nelle chiese di Roma, dove si fermava a lungo a pregare e a sentire le Messe.
Il resto del tempo libero lo impiegava nel visitare gli infermi in qualunque parte di Roma, senza pensare a nutrirsi e senza badare al caldo e al freddo, alla pioggia e al vento, nonostante che avesse difficoltà a camminare per un malore ad una gamba.
Un giorno, strada facendo tra Roma e l’Ariccia dove era stato chiamato per visitare un infermo, al compagno di viaggio parlò così profondamente della Messa che questi si chiedeva: “Come è possibile, che un uomo che io so che ha fatto il fornaio, e che è ignorante come me, sappia capire tutto quello che si dice in latino nella Messa, sappia capire e spiegare così bene tutto quello che nella Messa si fa, e tutto quello che si deve fare da chi la serve e da chi la sente?

Carattere focoso, mai alterato

Nel 1737 nel convento di piazza Barberini a Roma, sopraggiunse un’emergenza.

Infatti si era ammalato padre Gregorio Forti da Roma, uomo di vasta cultura e di vita virtuosa, aveva ricoperto incarichi importanti e per 22 anni era stato postulatore generale per le cause dei santi.
Colpito da grave e penosa infermità, si sforzava di accettare in spirito di fede la sua condizione, ma negli accessi del male diventava particolarmente esigente e perfino intrattabile.
Più di un religioso, incaricato di assisterlo, si era presto stancato di fronte alle sue stranezze e sfuriate.
I superiori allora pensarono a fra’ Giorgio e il fraticello accettò.
E così per venti anni curò quel corpo martoriato dalle piaghe, che rendevano irrespirabile anche l’aria della piccola cella, dove anche lui era costretto a dormire.
La sua carità era pronta e non conosceva esitazioni.

Un giorno d’estate, rientrato in convento dalla questua del pane verso mezzogiorno, trovò sulla porta Padre Camillo da Palestrina, che gli fece un ampio rimprovero perché erano d’accordo di andare a far visita a un’ammalata a Sant’Agnese fuori le mura (a circa 5 km).
Forse se n’era dimenticato.
Fra’ Giorgio, senza scomporsi, gli chiede perdono, posò le bisacce e si mise in viaggio subito, senza prendere cibo.
Tornarono in convento all’imbrunire.

A mensa, un giorno, prese posto vicino a lui un sacerdore ospite, che sembrava non avere altra preoccupazione che quello di tormentarlo con osservazioni pungenti e mortificanti.
Dopo un lungo silenzio, fra’ Giorgio gli disse: “Voi siete mio buono amico; voi mi conoscete bene”.
Il sacerdote allora si alzò e lo abbracciò.
Aveva voluto provare di persona se la fama di santità di frate Giorgio era vera.
Certo, una santità sofferta e conquistata goccia a goccia.

Fra’ Felice da Poggio Bustone, compagno di fra’ Giorgio nella questua del pane, dirà di lui:
Era di naturale igneo; lui stesso mi disse: Beato voi, che avete un naturale così quieto!
Eppure non lo vidi mai inquieto o alterato”.

Sopportava serenamente chi lo prendeva serenamente in giro e ringraziava Dio che, per amore, gli mandava quella prova.
Questo stile di vita nasceva dalla preghiera e da un esercizio quotidiano di dominio di sé.
Non volle mai indossare un saio del tutto nuovo né portare sandali che non fossero usati o quasi logori.
Racconta fra’ Francesco da Vienna:

Nei cinque anni in cui son vissuto con lui, non l’ho mai veduto mangiar carne, pesce, salumi e frutta, eccetto quando una volta, per Pasqua, il confessore gli comandò di mangiare un poco di carne (che assaggiò appena) ed eccetto quando, a Frascati, si mangiava dal Principe Piombino”.
Abitualmente gli bastava qualche tozzo di pane avanzato.
A chi lo esortava perché si usasse dei riguardi, rispondeva che il corpo era una bestia e non bisognava mai dargli troppo ascolto.
Spesso rimaneva digiuno fino al pranzo.

“Mi manda fra’ Giorgio”

Il fratello gesuita, testimonia che fra’ Giorgio nei suoi giri di questuante per Roma “faceva tutto con gran pace e tranquillità”.
Non aveva bisogno di chiedere, perché tutti gli davano l’offerta spontaneamente.

Dalla gente riceveva sempre e soltanto il necessario per i frati e non accettava le elemosine che gli offrivano i dipendenti, senza l’autorizzazione del padrone.
Quando riceveva molto, molto dava a persone bisognose, che inviava anche dai benefattori dei cappuccini, affinché loro stessi venissero in loro aiuto.
I suoi poveri, inoltre, sapevano di avere una banca dove andare presentando una insolita carta di credito: “Mi manda fra’ Giorgio”.
Infatti, aveva costituito un deposito di alimentari e di denaro presso un fornaio amico.
Era la sua banca per i poveri, che lo veneravano come un santo.

Si riteneva l’ultimo dei frati e si sentiva mortificato quando la gente lo fermava, implorandone la benedizione.
Un giorno che don Martino Cislago gli fece notare di quanta venerazione fosse circondato, rispose: “Sono miserie”.

Quando Nicola Molinari da Lagonegro, grande apostolo delle missioni popolari e santo vescovo, riferì a Clemente XIII che frate Giorgio aveva predetto la sua elezione al pontificato, il Papa volle conoscerlo.
Al termine dell’incontro gli chiese se avesse qualche desiderio.
Il santo frate rispose che per sé non aveva bisogno di nulla, ma chiese la facoltà di poter benedire le persone che incontrava, specialmente gli infermi.
Il Papa non solo lo autorizzò, ma concesse a quella benedizione tutte le indulgenze, anche in articulo mortis, come se la benedizione la desse lui stesso.

L’ultimo incontro

Il primo ottobre 1762 fra’ Giorgio fu invitato a Frascati dal Principe Gaetano Boncompagni Ludovisi e dalla moglie donna Laura Chigi, che lo volevano loro ospite.
Si sentì in dovere di accettare l’invito, ma il giorno dopo, mentre era nella chiesa dei frati riformati, venne colto da febbre altissima.
Tenendo in mano il piccolo crocifisso che il Papa aveva arricchito di indulgenze, lo baciava ripetutamente e in tutte le direzioni.
Volle che gli si leggesse più volte la passione del Signore e lo Stabat Mater.
Nel delirio, tentò più volte di alzarsi per andare a comunicarsi e a servir Messe.
Il 7 ottobre, dopo una breve agonia, si addormentò nel Signore.